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Connessioni magiche.

By 3 Settembre 2018 Luglio 9th, 2019 No Comments

Questa settimana ospitiamo un pensiero sul potere delle parole e la magia delle storie, di Silvia Montagnini, autrice e attrice.

Con Silvia, da tempo oramai, stiamo lavorando sulla comunicazione e abbiamo progettato un workshop nuovo:

High Performance Speech – IMPATTO.INFLUENZA. Influenzare, convincere, comunicare.

La struttura è quello del laboratorio per sviluppare, creare e comunicare idee ed esperienze per muovere all’azione.

Prossimamente darò notizia della nuova iniziativa che stiamo preparando.

Abbiamo immaginato, infatti, un percorso che costruisca una serie di competenze distintive e originali, consentendo ai partecipanti di lavorare sulla comunicazione d’impatto, che riteniamo essere una delle skill fondamentali da padroneggiare in un mondo sempre più iper-connesso come l’attuale.

Saremo a Vicenza con IMPATTO.INFLUENZA il 27 e 28 settembre.

Connessioni magiche

Il mio lavoro è quello di raccontare storie ad un pubblico.

Questa mattina ho scoperto cos’è successo negli ultimi vent’anni tra il cervello delle persone che mi hanno ascoltato durante gli spettacoli e il mio cervello.

L’ho scoperto grazie alla ricerca di un gruppo di neurologi americani che hanno fatto alcuni esperimenti “scannerizzando” il cervello di alcune persone che ascoltavano la stessa storia raccontata da un buon oratore.

Prima notizia, i cervelli degli ascoltatori erano tutti allineati: le zone attivate le stesse e le oscillazioni neuronali sincronizzate. Hanno poi monitorato il cervello del narratore, ben sapendo che il processo della costruzione di una storia e quello dell’ascolto sono diversi. Seconda notizia: nonostante i processi diversi il cervello del narratore viaggiava praticamente in sincrono (in realtà con un leggerissimo e ovvio anticipo) con quello degli ascoltatori.

Seconda parte dell’esperimento. Gli ascoltatori hanno guardato il pezzo di un film. Quando le stesse persone hanno raccontato il film ad altre persone che non l’avevano visto non solo i loro processi si sono ripetuti quasi identici, ma si sono riprodotti nel cervello degli ascoltatori.

Ho sempre pensato che ci fosse questa specie di “magica connessione” alla Avatar tra chi racconta storie e chi le ascolta (a volte coadiuvata da musiche, luci, ambiente esterno, ma sicuramente lasciata molto in mano a chi la storia la racconta e come la racconta). Certo di base ci deve essere una specie di patto: io ti chiedo un’ora o poco più del tuo tempo e della tua attenzione, e ti prometto che ne sarà valsa la pena. A volte la promessa è mantenuta, a volte no, ma l’intenzione deve essere onesta in partenza.

Innanzitutto, per poter raccontare bene le storie bisogna avere gli strumenti per poterlo fare.

Partiamo dalla prima elementare.

Bisogna conoscere il mezzo di comunicazione: il proprio corpo, i suoi blocchi, come funziona il respiro se ci agitiamo, come rallentarlo, come esce la nostra voce, come gestirla a seconda del contesto. Come ci muoviamo nello spazio rispetto allo spazio stesso e alle persone presenti. Come usiamo lo sguardo, le pause nel discorso. Partiamo dalla forma.

Passando alle scuole medie iniziamo ad avvicinarci alla sostanza. Come costruiamo il nostro discorso? Sembra semplice, è una vita che raccontiamo – ai genitori le bugie di un rientro tardi a casa, agli amici le vacanze, ai figli di guardare prima di attraversare e perché sia utile farlo. A volte i racconti sono efficaci a volte meno. A volte ci diverte ascoltare un amico che racconta le sue vacanze abbastanza nella norma, altre ci annoia ad ascoltarne un altro che è stato tre mesi in mezzo ai Maori. In tutto ciò entra quella che possiamo definire la “costruzione drammaturgica”, cioè come costruisco il discorso. Da dove parto, cosa scelgo di raccontare, quali aneddoti, come coinvolgo l’audience (attraverso domande, costruendo immagini forti, ripetendo parole chiave ecc).

Passando alle scuole superiori iniziamo ad amalgamare le conoscenze acquisite, la forma e la sostanza: conosco il mezzo – il mio corpo – e il come – la costruzione drammaturgica – e lo mescolo con il cosa – il mio contenuto. Quanta padronanza ho di tutto ciò? E’ come studiare le regole della guida e fare pratica. Abbiamo la patente, ma da lì a guidare in scioltezza nel traffico della tangenziale ci passa un po’. Dobbiamo fare pratica. I cinque anni delle superiori (metaforicamente) ci vanno tutti.

Cosa succede all’Università? Ecco. Lì ci si specializza Avatar. In quel momento si abbandona l’allenamento tecnico – come in Karate Kid il famoso “metti la cera, togli la cera” e si passa al combattimento –  che spesso non lascia a terra feriti, ma condivisione di momenti.

Nella nostra comunicazione si inserisce l’emozione personale. Che non vuol dire semplicemente buttar dentro qualche aneddoto dell’infanzia e mescolare il tutto. C’entra spesso l’onestà intellettuale, il coinvolgimento personale nella storia. Quanto ci interessa veramente. Ma non solo. Perché la sto raccontando. Quanto sono davvero in ascolto di chi mi sta ascoltando. Sì. Il coinvolgimento gode della proprietà transitiva. Io spesso ho percepito negli anni la differenza tra giorni in cui facevo uno spettacolo con la voglia di raccontare, ma anche visualizzando io stessa davvero le immagini, allungando i tempi ascoltando il pubblico o velocizzando il testo quando sentivo che si era insieme con le persone per far crescere l’emozione… ecco, dicevo, ho sentito la differenza tra giorni così e giorni in cui mi sono fermata al liceo. Eseguendo in modo corretto e rigoroso. Sicuramente le persone hanno seguito, qualcuna si è anche emozionata perché magari la storia ha attinto ad un suo immaginario personale, ma il mio ruolo non è stato fondamentale. Forse se qualcun altro avesse fatto lo stesso spettacolo con quelle parole, quelle musiche e quel ritmo sarebbe cambiato poco.

Qualche ultimo piccolo consiglio:

Un oratore dovrebbe sempre avere un’idea sola– o storia, o contenuto (o quantomeno un’idea per volta) da raccontare. Non mescoliamo troppi concetti. Quest’unica idea deve essere espressa correttamente ed in modo esaustivo. Bisogna darle un contesto, inserire esempi, renderla viva. Questa idea può essere il fil rouge che guida tutto il discorso. In qualche modo tutto deve tornare a quell’idea.

Un oratore deve chiedere il permesso (in modo metaforico). Perché la mia storia merita il tuo tempo e un pezzetto del tuo cervello? Cosa può incuriosirti – in buona sostanza – di ciò che ti sto raccontando? Posso usare domande intriganti, provocatorie… per esempio. Se il pubblico crea uno spazio ad una domanda a cui non sa dare soluzione ho lo spazio per costruire l’idea.

Costruite l’idea pezzo per pezzo inserendo contenuti che il pubblico non conosce già, o dando nuovi punti di vista. Attenzione ad usare il linguaggio di chi mi ascolta. Conoscono tutti i termini che stiamo usando? Le metafore per esempio aiutano la comprensione di concetti difficili.

Il master all’Università? Prevede la messa in discussione di tutto ciò che ho fatto. Un’apertura all’ascolto e al dialogo. Qui le idee altrui possono trovare spazio nel nostro cervello. E – chissà – costruire un’idea ancora più potente di quella che ho espresso io.

Ma questa è un’altra storia…

Silvia Elena Montagnini

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