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La rana e il bambu’ 4. Il gioco del business.

By 31 Ottobre 2016 Marzo 29th, 2018 No Comments

La rana e il bambù 4. Il gioco del business.
40924302_lUn amico/lettore, che chiamerò “P.” e che lavora da anni in un’importante azienda, mi ha inviato un commento interessante che ho piacere di condividere con tutti voi. La Rana e il Bambù diventa così un appuntamento, dove raccontare storie di persone e di aziende vere, con l’obiettivo di riflettere.

LA SQUADRA DI CALCIO
Essere squadra.
 
Non mi piace il calcio, ma faccio un’eccezione e attingo da questo sport per fare un paragone.
 
Vedo gli attaccanti, come gli operai e gli impiegati, la vera forza, se ben motivata, che porta al goal, con un buon passaggio di palla (coordinamento) e di allenamento (competenza e formazione).
 
I difensori, come i responsabili delle funzioni che impostano l’attacco, sapendo quando e a chi passare palla. Conoscono lo schema, sanno vedere l’andamento del gioco e conoscono le persone al momento adatte per lo scatto. Riconoscono i talenti, ma sanno che è il gioco di squadra a farne dei campioni, da soli non farebbero la differenza, o perlomeno, non sempre.
 
Il portiere ha visione del gioco e aiuta dalle retrovie per evitare che la palla cambi direzione ed estremo difensore in caso di “guai”.
 
L’allenatore, tra i più importanti.
E’ quello che può fare la differenza, il suo carisma e presenza in campo è fondamentale.
La sua regia è frutto della conoscenza dell’obiettivo e della forza che dispone.
Aiuta alla creazione di un ambiente di fiducia e unione.
Capisce al volo quando manca motivazione e poco allenamento, sa fidarsi dei suoi collaboratori.
E come tutti … sa adeguarsi e inventare nuove soluzioni.
 
Tutti e ripeto tutti, conoscono l’obiettivo, sanno che possono dare e ricevere suggerimenti e sono ascoltati.
La coerenza deve essere sovrana, soprattutto da chi indica la strada.
 
E poi, non da ultimo, il proprietario della squadra.
Chi deve riconoscere che, a volte, non sono i giocatori a dare brutti risultati ma l’allenatore.
Saper accettare che, se non è la persona giusta e non si pone rimedio, i risultati non arrivano.
(P., mail di ottobre, pubblicata con l’autorizzazione dell’autore)
 
Fiumi d’inchiostro sono stati scritti sulla squadra, sulla formazione dei team e, in effetti, ci sono interessanti analogie tra lo sport – la competizione, la partita, gli avversari, l’allenatore, etc. – e il business. Oggi leggeremo qualche riflessione di Phil Jackson, un grande allenatore di basket NBA, nella cui biografia sul libro si legge “il più grande allenatore”…
 
Un altro aspetto degli insegnamenti buddhisti che mi ha influenzato è l’enfasi sull’apertura e la libertà. Il maestro zen Shunryu Suzuki ha paragonato la mente a una mucca in un pascolo. Se richiudi la mucca in un piccolo spazio, diventerà nervosa e frustrata e inizierà a mangiare l’erba del vicino. Ma se le dai un grande pascolo per poter girare liberamente, sarà più contenta e meno incline a cercare di fuggire. Per me questo approccio alla disciplina mentale è stato enormemente innovativo e liberatorio, specialmente se comparato al rigido modo di pensare che mi era stato inculcato da ragazzo.
Ho anche scoperto che la metafora di Suzuki può essere applicata alla gestione di una squadra. Se ai giocatori poni troppe restrizioni, passeranno tanto tempo a cercare di opporsi al sistema. Come tutti noi anche loro hanno bisogno di un certo grado di struttura nelle loro vite, ma hanno anche bisogno di sufficiente libertà d’azione per esprimersi con creatività. Altrimenti inizieranno a comportarsi come quella mucca nel recinto.
(Phil Jackson – Eleven Rings)

Molte organizzazioni costruiscono recinti così piccoli da imprigionare la mente delle proprie persone in procedure, sistemi, processi che rendono difficile, creare le condizioni perché creatività, idee e innovazione possano svilupparsi.

Un breve scarto laterale mi porta a un cenno sulla motivazione e al piacere di citare Pietro Trabucchi che, nel suo bel libro, Perseverare è umano, scrive:
Le organizzazioni devono rinunciare alla presunzione di motivare le persone, se con questa espressione intendiamo iniettare magicamente cariche motivazionali nei propri membri. Più realisticamente le organizzazioni devono lavorare per sostenere e far crescere la motivazione già presente negli individui: e questa non è una magica scorciatoia, ma una strada lunga e faticosa. Per prima cosa occorre evitare le condizioni che abbassano la motivazione. Infatti, se è vero che i motivatori magici non esistono, è altrettanto vero che grandi demotivatori si diventa in un attimo. Occorre quindi attivare una serie di condizioni organizzative che sostengono l’automotivazione.

Trabucchi prosegue, con chiare indicazioni su cosa fare:
(…) investire tempo ed energie per stare insieme e conoscere a fondo i membri della squadra. Siamo governati dal falso assunto che le buone relazioni si trovano e non si costruiscono. Perciò tendiamo a sottovalutare l’importanza di investire nei rapporti.
 
Entrare in sintonia con le motivazioni intrinseche altrui, fare sentire le persone capaci, riconoscere le loro competenze e i loro progressi.
(…) Avere fiducia nelle capacità altrui è un preciso comportamento, non una scommessa.

Le persone hanno bisogno di sentirsi autonome, autodeterminate. Uno stile di leadership troppo prescrittivo demotiva.

Se parliamo di leader, parliamo di allenatori:
Alcuni allenatori adorano seguire la massa come dei pecoroni. Passano un’enorme quantità di tempo a studiare ciò che preparano gli altri allenatori e cercano ogni possibile nuovissima tecnica per avere un vantaggio competitivo sugli avversari. Questo tipo di strategia di controllo dall’esterno può funzionare nel breve periodo, se si ha una personalità forte e carismatica, ma inevitabilmente produce l’effetto opposto nel momento in cui i giocatori si stancano di essere comandati e perdono attenzione per quel che gli si dice o, più verosimilmente, gli avversari si fanno furbi e trovano un modo più intelligente per rispondere alle tue ultime mosse.
(Phil Jackson – Eleven Rings)

Jackson focalizza due aspetti importanti: studiano ciò che fanno gli altri allenatori, le famose “ricette” e “best pratice” sulle quali spesso scrivo come di oggetti da trattare con molta attenzione; gli avversari si fanno furbi e trovano un modo più intelligente per rispondere alle tue ultime mosse, concorrenti che arrivano prima e ti colgono impreparato.

Una cosa che ho imparato nel corso della mia carriera da allenatore è che non puoi imporre la tua volontà agli altri. Se vuoi che si comportino in maniera diversa, devi stimolarli in modo che cambino di testa propria.
La maggior parte dei giocatori sono abituati a lasciare che sia l’allenatore a pensare al posto loro. Quando si trovano di fronte a un problema in campo, guardano nervosamente verso la panchina e aspettano che sia il coach a escogitare una soluzione. Molti allenatori sono più che contenti di soddisfarli. Non io. Il mio interesse è sempre stato quello di fare in modo che i giocatori pensassero da soli, così che fossero capaci di prendere decisioni difficili nel bel mezzo della battaglia usando la loro testa.
(Phil Jackson – Eleven Rings)

Bello ma impegnativo…
Creare giocatori che pensano da soli richiede impegno, fatica e tanta pazienza; bisogna seguirli, dargli le giuste competenze, farli crescere, accettare che qualche volta possano sbagliare … è meglio dargli già una soluzione, pronta, semplice e sbagliata!

Per diventare allenatore devi faticare, sperimentare, riflettere e impegnarti…
Dopo anni di sperimentazione, ho scoperto che più cercavo di esercitare direttamente il mio potere sui giocatori e più ne perdevo. Ho imparato a mettere da parte il mio ego e a delegare il più possibile, senza però perdere la mia autorità nella decisione finale. Paradossalmente questo approccio ha migliorato la mia efficacia, perché mi ha permesso di concentrarmi sul mio ruolo di “custode” della visione d’insieme della squadra.
Alcuni allenatori insistono nell’avere l’ultima parola su tutto, io invece ho sempre cercato di favorire un ambiente nel quale ciascun individuo ricoprisse il ruolo di leader, dalla matricola più inesperta alla superstar veterana. Se l’obiettivo principale è portare la squadra a uno stato di armonia e unità, non ha senso imporre la rigida autorità.

(…) Per come la vedo io, il mio lavoro come allenatore è creare qualcosa di significativo da una delle attività più banali e più noiose esistenti sulla faccia della Terra: giocare a basket da professionista.

(…) L’essenza dell’allenamento è portare i giocatori ad accettare in toto di essere allenati, e quindi offrire loro un senso di ciò che sarà il loro destino in quanto squadra.
(Phil Jackson – Eleven Rings)

L’analogia tra sport e business ha dei limiti che spesso, autori e consulenti trascurano, ma di cui dobbiamo essere consapevoli.
Se un giocatore si può stancare di essere comandato e magari cambiare squadra o addirittura smettere di giocare, un dipendente con famiglia e figli a carico, no! Soprattutto oggi, molti non hanno possibilità di scelta. Se vivessimo i tempi più facili, come ad esempio, furono quelli di fine anni ’90, molte aziende oggi perderebbero parecchie delle loro persone.

Alcune organizzazioni non hanno squadre (o team, se vogliamo essere in linea con i trend linguistici attuali), hanno gruppi di persone che, in qualche modo, interagiscono.
Lo spirito di squadra dovrebbe essere costruito dall’Alta Direzione, in virtù del fatto che l’esempio viene proprio dall’alto.
Ci dovrebbe essere prima di tutto, un allineamento, su obiettivi, strategie e comportamenti. Quello che c’è sotto non può che essere lo specchio di quello che si trova più in alto.

Il punto è che la Direzione può decidere di non credere nella squadra.

Dovremmo chiederci quale tipo di organizzazione avrà più possibilità di successo nel futuro: se l’organizzazione abituata a lavorare insieme, in modo connesso, o l’organizzazione di stampo taylorista divisa in silos, frammentata e divisa.
Se, la variabile tempo è un elemento da considerare, dovremmo anche decidere quali sono le caratteristiche rilevanti che rendono un’azienda più veloce e proattiva di un’altra.

Le risposte a queste domande influenzeranno il tipo di collaboratori che riteniamo debbano far parte dell’organizzazione così progettata e determinerà la scelta del tipo di allenatore necessario e il gioco che vogliamo giocare.
Insomma diventano una risposta strategica.
E la strategia è legata a scelte, piani d’azione, progetti e obiettivi e corrisponde anche alla definizione di un futuro possibile e in qualche misura plasmabile, dipende cioè anche da quello che decidiamo sia importante fare e da come vogliamo realizzarlo.
 
L’unico vantaggio competitivo sostenibile è l’abilità di imparare più in fretta della concorrenza.
(Arie de Gues)
E’ un altro modo di vedere il mercato e la concorrenza: squadre che si fronteggiano sul campo. Il “team” più motivato, quello che impara più velocemente, quello meglio preparato, quello fatto di persone che sanno giocare insieme e che vogliono riuscire, ha più probabilità di vincere.
Così gioca una squadra che vince, è il gioco del business!

Buona settimana
Massimo

 

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