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Il mestiere di “capo”…

By 10 Aprile 2016 Marzo 29th, 2018 No Comments

Il mestiere di capo …Blog 1416I leader non nascono. I leader si creano, e vengono creati dallo sforzo e dal duro lavoro.
(Vince Lombardi)

Dalla Treccani – Capo: Persona che dirige, che è posta al comando di altre persone (il capo, cioè la testa, è la parte principale e più nobile del corpo).

Parlare di leadership, capi e manager è sempre, un po’ complicato. Tanto si è scritto e si continua a scrivere; poche cose originali mischiate a tante ovvietà.
Ho trovato una bellissima descrizione del mestiere di capo, che mi piace citare.
Si trova in un libretto di poche pagine dal titolo impensabile: Le 9 regole della scuola di Bernhard Bueb (ed. Rizzoli). Tutte le citazioni che qui riporto derivano da quel fantastico libretto, salvo dove diversamente specificato.

Lo studioso scrive nella prefazione:
Per oltre trent’anni ho diretto un grande collegio in qualità di rettore. E ogni giorno ho così potuto constatare che cosa desiderano davvero le persone: riconoscimento, attenzioni, incoraggiamento, indicazioni sulla condotta da seguire e giustizia – in una parola, vogliono una guida. (B.Bueb)
Spesso, quando si tratta di leadership, pensiamo a cose molto complicate o difficili, invece essa è fatta da un insieme di azioni e decisioni – anche piccole – che influenzano e guidano altre persone.

Essere una guida significa dirigere, progettare, coordinare, delegare e controllare. Ciò presuppone sempre un dislivello tra colui che – in ragione della propria esperienza, età o posizione – detiene il potere e coloro che vengono indirizzati, e possiedono meno esperienza e meno potere. (B.Bueb)
Meravigliosa sintesi in cinque parole del mestiere di “capo”.

La posizione di potere ha anche un aspetto di responsabilità:
Tuttavia essere in una posizione di potere significa anche mettersi al servizio degli altri, poiché chi è al comando con il proprio operato si prodiga sia per un buono scopo, sia per coloro che guida. E’ questo che giustifica il suo diritto di comandare: oltre alla legittimazione a far crescere chi è sotto il suo comando – e che emerge dall’amore, dalla competenza, dall’esperienza e dalla posizione legale dell’interessato – egli ottiene il diritto di esercitare il potere sugli altri. E’ questa l’autorità: nient’altro che potere legittimo.
E’ una legittimità che non deriva da un titolo altisonante su un bigliettino da visita o dalla firma su una mail, ma da un insieme di caratteristiche evidenti e dimostrate.
 
Secondo Max Weber il potere è “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità. Il potere, vorrei aggiungere, non è un valore ma un mezzo: per questo non è né buono né cattivo in sé, perché il suo valore gli viene conferito solo dallo scopo al cui servizio esso si pone.
Ho scritto più volte che non può essere tutto giustificato, esistono cose giuste e cose sbagliate, non si può sempre giustificare tutto:
Se prendete il caso di quei pochi, pochissimi, che durante il collasso morale della Germania nazista rimasero immuni da ogni colpa, scoprirete presto che costoro non hanno mai dovuto affrontare alcun conflitto morale o alcuna crisi di coscienza. Non meditarono a lungo su problemi complicati – il problema del male minore o della lealtà al proprio paese o della fedeltà al proprio giuramento, e via dicendo. In altre parole, essi non sentirono in se stessi un’obbligazione, ma agirono semplicemente in accordo con qualcosa che per tutti loro era autoevidente, benchè non fosse più autoevidente per gli altri. La loro coscienza, se di questo si trattò, non parlò loro in termini di obbligazione, non disse loro “Questo non devo farlo”, ma semplicemente “Questo non posso farlo”. (H.Arendt)
Hannah Arendt parlava di “banalità del male” a proposito del genocidio nazista, ovvero di persone che limitandosi a seguire gli ordini avevano eliminato il proprio giudizio morale sugli atti che compivano. Non si vuole fare qui un paragone eccessivo o esagerato con i tanti manager che, per inseguire bonus milionari o avanzamenti rapidi di carriera, hanno appoggiato e/o proposto scelte scellerate. Essi non sono certamente paragonabili ai criminali nazisti che hanno assassinato milioni di persone, tuttavia sono corresponsabili del peggioramento della situazione generale in cui versano molte persone che, avendo perso il lavoro, hanno visto seriamente compromesse le loro possibilità di una vita serena. Hanno, con le loro ciniche decisioni, compromesso il futuro di altre persone.
Nel comando, insomma, vi è una dimensione morale collegata alle decisioni e alle scelte che il leader intraprende.

L’arte del comando consiste nel far valere la propria volontà non “contro un’opposizione”, bensì con il consenso di coloro che vengono guidati: altrimenti si tratta di dominio. E non basta che il potere sia fondato sulle istituzioni: in quel caso conferisce solo la facoltà di imporre ciò che una persona ritiene giusto in virtù di una carica politica. Questa “autorità d’ufficio” è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere una guida.
Ciò che serve piuttosto è la lucida decisione di voler essere un modello per gli altri: molte persone non intendono assumere il comando e agiscono di conseguenza. Purtroppo però ci sono anche molti individui che devono guidare gli altri anche se non vorrebbero: sto parlando di genitori, educatori, insegnanti, politici e persino imprenditori e presidi. Il non voler fare da guida è altrettanto deleterio dell’incapacità di assolvere tale compito o persino dell’abuso di tale ruolo, poiché ne deriva una debolezza di comando che può generare ingiustizia, mancanza di metodo, insicurezza, discordia e soprattutto fatalismo.
Ed è anche molto difficile da affrontare, perché chi occupa una posizione di comando spesso non ammette di non voler affatto ricoprire quel ruolo. Alcuni addirittura considerano una virtù il fatto di non cedere alle lusinghe del potere.
Chi vuole assumere una posizione di autorità dovrebbe chiarire sin dall’inizio del proprio lavoro la questione del potere. Chi non sa prendersi la responsabilità del potere che un incarico direttivo comporta, difficilmente potrà assolvere quell’incarico con successo. Egli mentirà a se stesso, perché dirigere senza esercitare il potere è un’impresa impossibile. Esso solo garantisce che le idee si realizzino e che si possa dare forma al mondo.
 
(…) Una posizione di comando conferisce il diritto a impartire direttive, ma non è facile come sembra: sono richieste forza decisionale ed empatia, perché chi riceve un ordine deve riuscire a interiorizzarlo, anche se non lo capisce.
(…) Che si tratti di obbedire, sottomettersi, seguire o conformarsi, la reazione che ci si aspetta è che venga fatta la volontà del capo. Perciò nessuno deve impartire direttive che feriscano la dignità di coloro che le devono eseguire. Molte offese sono proprio conseguenza del modo di agire di chi occupa una posizione di comando. Chiunque esegue un ordine quando chi lo impartisce si mostra sincero e rispetta colui che ha di fronte.
Il piacere di guidare gli altri unisce l’appagamento di plasmare, la soddisfazione per il rendimento collettivo e il gusto del potere. E’ innegabile che sia molto appagante poter affermare la propria volontà con il consenso di chi deve sottostare alle direttive impartite, ma è anche vero il contrario: non riuscire a imporla è causa di profonda frustrazione.
Quando ciò accade i superiori spesso reagiscono con arroganza e ripiegano su un comportamento autoritario: così esigono obbedienza senza curarsi di ottenere il consenso dei dipendenti. Non gli importa legittimare la propria autorità agli occhi dei sottoposti, si limitano a esercitare il potere, pensando erroneamente che questo significhi essere autorevoli. Al contrario, se una relazione si basa sulla fiducia i collaboratori accetteranno spontaneamente le decisioni del loro capo, anche qualora non ne condividessero il contenuto.
La tentazione di reagire in modo autoritario quando non si ha seguito è forte: inoltre, le persone che occupano posizioni di comando spesso si lasciano indurre a compensare una scarsa autostima attraverso l’ostentazione del potere. Così il “potente” inizia a vendicarsi. La sua posizione di capo addirittura lo legittima a vessare gli impiegati – persino quando i motivi sottesi al suo comportamento sono palesi, come nel caso dell’invidia per la maggior intelligenza di un dipendente – e a reagire con meschinità alle obiezioni.

(…) Sembra ovvio che chiunque assuma una posizione di commando debba saper essere una guida per gli altri: tuttavia molte persone ricoprono questo tipo di ruolo senza averne le caratteristiche, né possedere una preparazione adeguata. Talvolta anche i figli dei sovrani, dopo essere saliti al potere, non hanno saputo assolvere al proprio compito perché privi delle doti necessarie, e tuttavia non hanno avuto il coraggio di rinunciare al trono. Anche i rampolli degli imprenditori (raramente le figlie) che hanno rilevato l’azienda paterna senza essere stati educati a quel ruolo spesso non sono riusciti a imporsi, rifiutando il diritto acquisito dalla nascita.
(…) Storicamente gli incarichi di comando erano acquisiti per diritto ereditario: sin dalla nascita era chiaro se un bambino da adulto avrebbe assunto una posizione egemone nel Paese o nella famiglia. I precettori dei principi esercitavano una significativa influenza sulla formazione del carattere del futuro sovrano. Vigeva la convinzione che la successione rendesse alcuni uomini idonei a guidare il popolo, se non per natura, almeno per grazia divina. E alcuni imprenditori-proprietari la pensano ancora così. (B.Bueb)

Che conclusione possiamo trarre?
Non a caso si parla di condotta di vita. Il modo in cui una persona conduce la propria esistenza, come si comporta e tratta gli altri, la fiducia che ha in sé e di conseguenza la fiducia che ripone nel prossimo, l’autodisciplina che si impone, sono tutti elementi che determinano il modo in cui guiderà gli altri. Poiché il comando è un fattore così decisivo nella vita dell’uomo, si è sempre dedicata un’infinità di tempo e di energie a formare e istruire le personalità leader. (B.Bueb)

Le organizzazioni e i loro leader dovrebbero molto riflettere su quest’ultima frase e sul concetto di “formare e istruire”, e agire con lungimiranza invece di dedicare i rimasugli alla formazione delle loro persone, creando così leader di nome, ma non di fatto.
Ci dovrebbe essere, da parte dei leader affermati, l’umiltà di voler continuamente migliorare e affinare le proprie competenze e capacità, invece di sentirsi arrivati e onniscienti.

Il mestiere di “capo” è la capacità di guidare gli altri, con passione, intelligenza, con mente e cuore. E’ un “mestiere” che si acquisisce facendolo, con la guida di qualcuno che possa essere un modello cui ispirarsi, fino a trovare poi la propria strada. L’augurio è che ci siano modelli adeguati, capaci di creare significato e di ispirare. E, purtroppo, non è sempre così.

L’esercizio del potere richiede sensibilità, pazienza, intelligenza e compassione.
Se chi svolge il mestiere di capo non ha queste caratteristiche o è debole in qualcuna di esse, può decidere di perfezionare le proprie competenze, può imparare a essere un capo migliore e dovrebbe avere il coraggio di fare quanto necessario; in caso contrario è senz’altro meglio cambiare mestiere. I danni di un cattivo capo possono essere devastanti.

Non voglio aggiungere altro.
Spero che queste righe facciano pensare voi, come hanno fatto riflettere me.
Buona settimana
Massimo

 

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