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L’inquinamento sociale e la dimensione dimenticata.

By 2 Novembre 2019 Novembre 5th, 2019 One Comment

Ambiente, ecologia, inquinamento.
Parole d’ordine di uso quotidiano, di cui si fa un gran parlare. 
L’attenzione all’ambiente e ai danni che scelte irresponsabili stanno causando sta finalmente ottenendo la giusta attenzione, risvegliando coscienze da tempo assopite nell’orgia del consumo.
E che dire di un altro tipo di inquinamento, più sottile ma altrettanto insidioso?
E’ l’inquinamento sociale, termine coniato dalla professoressa Nuria Chinchilla della IESE Business School, per descrivere le aziende che svalutano il benessere dei propri lavoratori.
Tante parole e tanta attenzione alla “sostenibilità ambientale” ma molto poco alla “sostenibilità umana” di molte organizzazioni.
Giusta e grande attenzione alle balene spiaggiate nulla e nessuna attenzione a tanti, troppi, dipendenti “spiaggiati”…
Un proliferare di bla-bla su performance, talenti, coaching e tante altre parole oramai diventate trite e ritrite, ma poca o quasi nessuna sulla riscoperta di un’etica del lavoro e del lavoro come etica, sulla valorizzazione delle persone non come “risorse” o “talenti” ma come esseri umani. 

Il linguaggio tradisce il pensiero e le premesse che supportano certe scelte: “risorse” di provenienza dall’economia classica – capitale, terra e lavoro, risorse appunto – e talenti, quel 5-10% della popolazione aziendale su cui, forse, vale la pena di investire dimenticandosi il restante 90-95%, cioè la stragrande maggioranza della popolazione aziendale.

Turnover, assenteismo, demotivazione, disinteresse e rifiuto delle responsabilità sono i segni concreti di una separazione tra tante parole usate e abusate e la triste realtà di molti ambienti di lavoro.
Così quindi alla giusta attenzione sulla sostenibilità “ambientale” dovremmo averne altrettanta alla sostenibilità “umana”.

Organizzazioni che svalutano il dipendente “anziano” visto come un problema da cui liberarsi il prima possibile perchè non più produttivo e magari incattivito o cinico; programmi di ristrutturazione che incentivano “esodi” eliminando figure e posizioni che, o non servivano e allora bisognerebbe chiedersi come mai sono state create, oppure ridistribuiscono il lavoro sulla popolazione rimanente aumentando il livello di pressione e di stress che finisce con il ridurre qualità e produttività generando demotivazione e disinteresse.
Segni di una profonda incapacità nel ripensare un modo di fare azienda che rimane prigioniero di schemi passati, di antichi modelli che ricordano il ripetersi infinito di una certa politica incapace di trovare nuove soluzioni a vecchi problemi e che finisce col proporre le ricette di sempre (basterebbe vedere le leggi di bilancio recenti e degli ultimi anni, sig!).
Un mondo chiuso e incapace di affrontare in modo nuovo le sfide di un ambiente ad alta velocità, complesso e globale.

Ho scritto altrove su quali leve bisognerebbe agire ma in questa riflessione vorrei toccare una dimensione oramai dimenticata e trascurata e che invece meriterebbe di essere riportata al centro della discussione: la dimensione etica, prima di tutto personale e poi sociale.

Vi è una celebre affermazione di Kant: “Ogni interesse della mia ragione (tanto lo speculativa che il pratico) si concentra nelle tre domande che seguono: 1.Che cosa posso sapere? 2.Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?” 

Alla prima domanda risponde la scienza, alla seconda l’etica, alla terza la religione. Parlare di etica significa quindi rispondere alla domanda su che cosa debba fare un essere umano, su quale sia il dovere che gli sta davanti per il fatto stesso di esistere come essere umano. 
(Vito Mancuso)

Che cosa debbo fare? E’ una domanda che riguarda tutti, sia il manager che l’imprenditore ma anche le altre persone che lavorano all’interno dell’organizzazione.
Adriano Olivetti in un famoso discorso del 23 aprile 1955 si chiedeva:

Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?
Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?
(…) La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.
La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità  di elevazione e di riscatto.
(Adriano Olivetti – Ai lavoratori di Pozzuoli – 23/4/1955)

Credere nell’uomo, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto e una storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli un avvenire… Parole a distanza di molti anni quanto mai vere, di un uomo, un imprenditore, che aveva visione, ottimismo, fiducia e valori e non era preoccupato solo dei risultati del trimestre…
Una dimensione che molte organizzazioni hanno bisogno di cercare, di ritrovare e di sviluppare se non vogliamo “inquinare” comunità, famiglie e persone.

E una dimensione fatta di serietà, impegno, dedizione e anche lealtà che molte persone hanno perduto, un’etica del lavoro oramai assente in molte organizzazioni, tra dipendenti che tirano a campare, cercando di sopravvivere in un sistema che svaluta la persona, abbraccia mode e “tool” alla ricerca di un’impossibile efficienza che non può essere sopra le persone o frutto di una qualche ricetta miracolistica ma che proviene solo dal lavoro con e per le persone (dipendenti e clienti).
Esiste ancora l’idea che ogni 3 anni circa sia necessario cambiare lavoro per non “fossilizzarsi” e per migliorare la propria posizione, idea che nasce da alcuni presupposti discutibili: a volte l’organizzazione effettivamente non consente alla persona di crescere e quindi l’alternativa è cambiare; in altri casi le promesse non vengono mantenute; in altre ancora è l’idea del “mercenario” che trova il primo esempio in alcuni manager; in altri casi ancora è oramai la “precarizzazione” del lavoro, tattica usata da molte organizzazioni che non vogliono assumere e utilizzano in modo cronico contratti temporanei per poter tagliare, se il caso o gli ordini di scuderia lo richiedono, con buona pace dell’importanza e del valore dei dipendenti. Si incontrano così persone di trent’anni che ogni due/tre anni hanno cambiato azienda, di fatto senza avere una reale competenza se non quella di aver imparato a “galleggiare” in un sistema che, cinicamente, premia l’arte di sopravvivere.
Un’etica del lavoro, quindi, tutta da riscoprire e da reinventare che può nascere solo stante certe premesse e certi comportamenti “virtuosi”. 

E’ facile immaginare che sistemi così “inquinati” finiranno ben presto per rompersi e già da molte parti e da molti autorevoli pensatori emerge l’idea che è necessario cambiare modalità, processi e valori che non funzionano più e che certe crisi, l’ultima pesantissima del 2008 e quella che probabilmente è in  arrivo, sono il risultato di comportamenti magari “legali” ma moralmente discutibili e strategicamente suicidi.

Alla giusta preoccupazione per l’orso polare in via di estinzione dovremmo affiancare anche la giusta attenzione per il lavoro ben fatto, per un’etica del lavoro e dell’impresa, per una “sostenibilità” umana dell’organizzazione, poiché il ben-essere sociale, ambientale e personale passa attraverso un’economia che produce e ridistribuisce ricchezza in modo profondamente etico, in tutte le sue dimensioni.

Una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta da fare altro da quello che dovremmo. (Seneca)

Ritorniamo a fare quello che dovremmo…

Massimo
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