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Riflessioni per manager e imprenditori. La dignita’ del lavoro 2.

By 26 Marzo 2017 Marzo 29th, 2018 One Comment

Riflessioni per manager e imprenditori. La dignità del lavoro 2.
13522780_xlNel post del 12 marzo, La dignità del lavoro, scrivevo che avrei volentieri segnalato eventuali commenti o osservazioni.
E’ con piacere e con l’autorizzazione di chi mi ha scritto, che ne riporto alcuni per proseguire con la discussione.

Caro Massimo,
ho letto il tutto con attenzione e riflessione e mi viene una domanda:
“C’è una Nazione o per lo meno una ditta di successo che riesca ad evitare una parcellizzazione e specializzazione del lavoro?” Credo di no, per cui la dignità del lavoro va ricercata nel riconoscimento dell’importanza del lavoratore, nel coinvolgerlo negli utili e nelle perdite e , forse, nella strategia aziendale, in quanto mentre la tecnica è un bagaglio di lungo apprendimento, quindi costoso, la strategia è spesso il “Buon Senso” applicato e non è proprietà di poche persone.
So che spesso, con le mie parole, sembro il Grillo parlante, ma è un vezzo che l’età mi concede.
Carlo – 13 marzo

Ciao Massimo,
mi ha colpito molto questo post, per una serie di ragioni.
La cosa forse più interessante è che, sebbene non in modo così articolato, documentato e chiaro, ero giunto a delle conclusioni molto simili a quelle del citato M. Crawford, di cui scopro oggi l’esistenza, a tale punto che, vista anche la passione in comune per l’argomento moto, mi ero addirittura interessato a valutare la presenza di una officina nella zona per poter impiegare part time la mia attività lavorativa.
Parlo di qualche mese fa, dunque non di un’altra vita.

Pensavo che fosse un’idea un po’ balorda, ma allo stesso tempo concepivo chiaramente il motivo di tutto questo, che è proprio la dicotomia ormai radicata tra il fare e il pensare, ovvero la scomparsa di quella dimensione, tradizionale ed artigianale, che ha visto nel corso dei secoli l’espressione migliore delle realizzazioni umane, e di cui abbiamo una vasta casistica di applicazioni e di realizzazioni di eccellenze nella nostra storia, presente e passata.

Purtroppo questa separazione, ormai radicata, è tale per cui, se riesci a conquistare il ruolo di “mente pensante”, cosi come la definiscono alcuni colleghi, in azienda, sei un po’ bloccato in questo ruolo e non hai più quella possibilità di fare, perché sarebbe uno spreco economico farti partecipare ad un ruolo del genere quando ci sono altri che fanno meglio, e costano meno.
Allo stesso modo succede il contrario, ovvero che le persone che fanno, e sanno fare, e per  questo hanno anche molte idee e valide, spesso non vengono ascoltate perché c’è già chi pensa ed è pagato (e di più) per farlo, ma non sempre con quei risultati che sarebbero auspicabili…

E’ altrettanto chiaro, dall’esperienza vissuta, che la conseguenza di questa separazione non può che portare, inevitabilmente, a un distacco ulteriore tra il pensare e l’agire, e si potrebbe dire tra il pensare e l’agire (fare) con cognizione di causa, il che si traduce in tattiche e strategie teoriche e quantomeno miopi, e fare a ritmi spasmodici rinchiusi dentro alla fatidica ruota del criceto.

Mi è piaciuto molto questo post, così come apprezzo l’impegno e la determinazione nel mettere in discussione i vari schemi mentali da cui, purtroppo, siamo oggi spesso vincolati.
Perché di questo si tratta: sono schemi, consuetudini, tradizioni apprese, conservazione (improbabile) dello status quo.
E’ molto utile mettere in dubbio, guardare agli esempi di eccellenza, mettere in discussione la realtà delle cose e trovare nuovi punti di vista, sempre.

Con l’augurio di riuscire a cambiare il mondo, un’idea alla volta.
Marco, 13 marzo 

In tema con l’argomento riporto anche un estratto del bellissimo post, assolutamente da leggere, scritto da un imprenditore, Renato Cifarelli: Cari colleghi imprenditori così non va, del 13 marzo, pubblicato su STRADE – Verso luoghi non comuni.

Cari colleghi imprenditori, in troppi ci stiamo dando la zappa sui piedi da soli. Lo dico come imprenditore, una persona che fa parecchi colloqui di lavoro, ma anche come padre, compagno, amico di persone che si trovano a fare colloqui dall’altra parte della scrivania.

Sono il primo, col mestiere che faccio, a essere spesso poco soddisfatto delle persone che si trovano quando si fanno ricerche per il lavoro. Sono il primo a essere insoddisfatto delle prestazioni che a volte le persone danno dopo essere state assunte. Sono il primo a essere insoddisfatto di regole e legislazione sul lavoro di stampo ottocentesco.

Ma le persone le ho scelte io. E a volte, se le prestazioni sono insoddisfacenti, la colpa è anche di chi dirige, dei processi e degli strumenti che le persone hanno a disposizione.

(…) Così non va, perché le aziende sono ormai organismi estremamente complessi che hanno sempre più bisogno di persone con elevatissimo grado di formazione e esperienza – e credetemi, se nella vostra azienda non è così è l’azienda che ha seri problemi.

Quando ormai, a causa della complessità del mercato, dei software, dei processi e delle procedure, i tempi per rendere un minimo produttiva una persona vanno da un mese a un anno, mi spiegate come pensate di fare per avere, ad esempio, un buon servizio clienti affidandolo a stagisti che ruotano ogni tre o sei mesi, con i clienti che ogni volta che chiamano si trovano a parlare con uno diverso, che sa poco o nulla? Davvero, senza prendervi in giro, spiegatemelo.
Vendete davvero un prodotto così semplice e scontato che chiunque può dare supporto? O magari state ottenendo lo stesso risultato di quelle grandi aziende che affidano a call center esterni il supporto ai clienti, e i cui clienti finiscono per cambiare operatore o disdire un contratto, pur di non averci più a che fare?

(…) La nostra fortuna è che poi, con persone più formate, motivate, esperte, clientela più fidelizzata e quindi con una maggiore produttività, si finiscono per avere – nel lungo periodo – prestazioni molto, ma molto migliori.

Se invece la vostra azienda va sempre peggio fatevi delle domande sulla gestione dei vostri collaboratori. E cominciate a pensare che se un’azienda va bene è merito di chi ci lavora, mentre se va male è colpa di chi la dirige.
Renato Cifarelli – Imprenditore 

Caro Massimo,
il fatto che il lavoro contribuisca in modo determinante all’identità personale è fatto ampiamente acquisito e persino sperimentato. Oggi, in una situazione di precarietà che obbliga molti 40enni e 50enni ad abbandonare il lavoro, si nota in costoro una regressione identitaria. Ben a ragione affermava Primo Levi che “il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese ed è altrettanto complesso ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza”.

Ciò che mi viene in mente leggendo il tuo articolo è che esiste un rapporto assai consolidato tra quelli che sono i vari livelli della piramide di Maslow (forse persino più famosa di quanto meriti) e la cultura del lavoro.

Quando sono i bisogni primari a dominare (sopravvivenza e sicurezza) al lavoro si chiede essenzialmente una immediata risposta sul piano delle certezze (retribuzione, stabilità del posto, ecc.). Quando i bisogni evolvono e quelli sociali diventano dominanti, ecco la dominanza welfare (asili nido, mense, ecc). Infine, ai bisogni superiori (stima e autorealizzazione) corrisponde la necessità della significatività del lavoro e il recupero del senso di dignità. Non che questo non esista nei livelli più bassi della scala, ma qui è spesso sacrificato.

Inutile dire che una crisi come quella attuale che apre nuovamente ai bisogni di sicurezza, porta con sé anche una certa rinuncia ai benefici superiori in nome di stabilità e certezza. Il tutto sarebbe da ben considerare, a mio avviso, nel caso di una generalizzazione del salario minimo garantito a tutti. Si risponderebbe così ai bisogni inferiori, ma, senza adeguate compensazioni, si correrebbe il rischio di non incidere sul piano dell’identità e della dignità.
Roberto GrandisEmpatheia

Sebbene la piramide di Maslow sia conosciuta, riporto una breve spiegazione ripresa da Wikipedia:
Tra il 1943 e il 1954 lo psicologo statunitense Abraham Maslow concepì il concetto di “Hierarchy of Needs” (gerarchia dei bisogni o necessità).

Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza dell’individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L’individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali devono essere soddisfatti in modo progressivo. Questa scala è internazionalmente conosciuta come “La piramide di Maslow”. I livelli di bisogno concepiti sono:
Bisogni fisiologici (fame, sete, ecc.).
Bisogni di salvezza, sicurezza e protezione.
Bisogni di appartenenza (affetto, identificazione).
Bisogni di stima, di prestigio, di successo.
Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).

Molte aziende e molti dipendenti sono spinti verso la parte bassa della piramide e lottano per la sopravvivenza. Chi non ha lavoro o non ha un’occupazione stabile, per vivere e mantenere la famiglia, accetta anche condizioni di lavoro limite pur di poter lavorare. Quando il lavoro assume un carattere di stabilità (un ossimoro con i tempi che corrono!) la motivazione deriva dal soddisfacimento dei bisogni posti più in alto nella piramide.

Non vi è dubbio che, complice anche una crisi di lunghezza infinita e indefinita, molte aziende non si assumono il rischio di assumere o utilizzano forme di assunzione temporanea. Inoltre l’attenzione ai costi, che a volte ha tratti paranoici, porta a tagliere insieme alle spese di cancelleria, anche la formazione che viene fatta poco e male e di solito deve costare poco e meglio se finanziata. I risultati sono poi sotto gli occhi di tutti.

Incredibilmente non ne parla quasi nessuno, adottando una sorta di “cover-up” (insabbiamento) e i risultati li vediamo nella crescita asfittica del PIL, nella demotivazione e nel continuo calo di professionalità.
Molte organizzazioni non riescono, purtroppo, ad affrancarsi da un provincialismo e da una ripetizione di vecchie formule oramai logore. Pochi hanno il coraggio di dire con chiarezza che abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare e di agire e di nuovi modelli di leadership.

La dignità del lavoro e l’orgoglio di appartenenza, la crescita umana e professionale sono stati buttati alle ortiche nella vana ricerca di formule che hanno un’unica caratteristica: sono archeologia industriale. E la ricerca di nuovi modelli sembra interessare molto pochi.

Scorrendo Internet leggi frasi roboanti, citazioni a effetto, super manager che ti raccontano come performance, successo e innovazione siano facili da ottenere, ma la realtà vera è purtroppo molto più banale e triste. Mi chiedo se questi “guru” stiano parlando per mettere in mostra se stessi o se siano consapevoli di come sta andando veramente il mondo.

Più grande è la sfida, più grande è la motivazione e l’impegno per vincerla e … si può fare, si può davvero cercare di migliorare un po’ il mondo.

Tiziano Terzani, famoso giornalista, scrisse:
Però le società, le civiltà si valutano anche dall’uomo che producono.
Dovunque mi ha interessato il lato umano. Non si riesce mai a ripeterlo abbastanza: tutti questi esperimenti, queste società moderne non si possono valutare solo sulla base dell’efficienza della loro struttura economica, ma soprattutto dal tipo di uomo che producono e dal tipo di vita che gli fanno fare. (Tiziano Terzani – La fine è il mio inizio)

Tra qualche settimana ancora sullo stesso tema: dopo i Diversamente motivati (post del 21/2/16), prossimamente Motivare diversamente

Design a better world …

Buona settimana
Massimo

 

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