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La grande avventura del nostro tempo.

By 29 Gennaio 2017 Marzo 29th, 2018 No Comments

La grande avventura del nostro tempo.51948301_l Ambizione, lavoro, leadership, motivazione, comando e controllo, temi attuali che si intrecciano in modi diversi e profondi.

Questa settimana vi propongo una riflessione un po’ particolare.

(…) Eroi e santi occupano un posto necessario nella storia dell’ambizione ma lo stesso si può dire delle persone, assai più numerose, che nel corso dei secoli hanno considerato pericolosa questa pulsione perché andava contro al principio morale secondo cui bisognava accettare il proprio destino come raccomandavano la maggior parte delle religioni. “Un uomo ambizioso è un uomo malato” scrisse un medico nel 1841, quando per gli ambiziosi c’erano ancora opportunità assai limitate, visto che appena l’uno per cento dei posti di lavoro nell’industria e il sette per cento nel commercio erano occupati da dirigenti. Solo di recente il desiderio di venire promossi a mansioni di rango superiore è diventata un’ambizione quasi universale, e gli “incentivi” sono diventati i migliori afrodisiaci sul posto di lavoro. Nel XX secolo il numero di dirigenti in Gran Bretagna è aumentato di sette volte, e in molti eserciti in tutto il mondo gli ufficiali sono triplicati: un terzo dell’esercito cinese è costituito da ufficiali e un altro terzo da sottufficiali.
Oggi però l’ambizione è in crisi: non possono esserci più supervisori che subordinati, senza nessuno a cui poter dare ordini. Le aspettative crescenti rendono sempre più difficile soddisfare le proprie ambizioni, anche se l’aristocrazia continua a espandersi nella meritocrazia. La brutale affermazione di Thomas Hobbes secondo cui ogni distinzione implica superiorità e inferiorità e non è possibile che tutti godano di eguale rispetto, perché “se tutti ce l’hanno, non ce l’ha nessuno”, non è ancora stata smentita. Ancora più importante, non c’è mai stata un’attenzione altrettanto spietata per le debolezze degli uomini di successo, dei potenti e dei ricchi. Non ci si è mai interrogati gran che sul fatto che possano fare più male che bene. Solo nei paesi emergenti ispirano soggezione; appena si moltiplicano, il loro incantesimo svanisce.

(…) Tutti i leader ormai dedicano quantità enormi di tempo a coltivare la propria “immagine”, come se non osassero mostrare la loro faccia senza prima truccarsi. Alcuni diventano personaggi di pura invenzione, trionfi dell’ipocrisia o dell’illusione. Per quanto possano parlare in maniera brillante di qualsiasi argomento, per quanto si dimostrino affabili e umili, a prescindere che scrivano poesie o guardino gli uccelli per restare sani di mente e dimostrare che sono comunque persone normali, non sono mai stati così vulnerabili alla distruzione improvvisa per errori che sono difficili da evitare. Anche se possono godere dei loro privilegi, dell’emozione di essere al timone e di un senso di realizzazione, pochi riescono a evitare uno stress perenne e danni alla vita privata. Il prezzo da pagare per realizzare la propria ambizione di rado viene fissato in anticipo.

(…) Io vivo in un paese che lascia tutti liberi di scegliere come guadagnarsi da vivere, ma dove il 57 per cento della forza lavoro pensa di aver scelto il lavoro sbagliato. Non è più possibile credere che la penserebbero diversamente se fossero tutti per magia, spinti in cima all’albero della cuccagna e salutati come leader carismatici. Ci sono alternative a questo tipo di successo.

(…) Oggi molti esseri umani, consapevoli del fatto che possono vivere fino a diventare centenari, potrebbero scoprire che salire e scendere i gradini della carriera non è il modo più divertente per passare tanti anni e che l’idea di essere un leader, con tutti i cambiamenti profondi e cosmetici che ha subito di recente senza peraltro abbandonare del tutto l’eredità del capo guerriero che sopravvive sconfiggendo rivali e nemici, è tuttavia meno emozionante dell’idea più vicina ai nostri tempi di lasciarsi ispirare dall’esempio dell’astronauta che esplora l’ignoto. Dare un nuovo significato al lavoro, in modo tale che sia qualcosa di più dell’esercizio di una competenza di un certo valore, più del piacere della collaborazione con gli altri, più di un prezzo che bisogna pagare nella ricerca della sicurezza o di una condizione vantaggiosa, significa usare il lavoro per ridefinire la libertà. Questa potrebbe diventare una delle grandi avventure del nostro tempo.
(Ventotto domande per affrontare il futuro – Theodore Zeldin)

La riflessione di Zeldin individua uno dei problemi fondamentali che oggi molte organizzazioni, e le persone che ci lavorano, devono affrontare: quello di dare un “nuovo” significato al lavoro.

Il mondo degli affari non si occupa solo di fare soldi: in origine il termine business rimandava all’ansia (busy-ness), e certo l’ansia è ancora un fattore dominante di quel mondo. Il bene più prezioso che viene scambiato non è l’oro ma il tempo e questo decide cosa si può fare di ogni giorno per ricavarne un utile maggiore. Poiché tuttavia la cultura è stata in parte relegata a fornire intrattenimento o consolazione dopo il lavoro, invece di essere riconosciuta come un ingrediente che possa dargli significato, il mondo degli affari ha fatto ben poco per mostrare l’ispirazione che è possibile trarre dalla vasta gamma delle sue esperienze. Finche gli affari sono trattati come una tecnica che può essere insegnata non potranno proporre quella che popolarmente viene definita una “filosofia”, vale a dire un punto di vista su quali siano il senso e lo scopo della vita. Una tecnica è una procedura da utilizzare per eseguire un’operazione, mentre una “filosofia” implica la continua ricerca di una comprensione più ampia che vada al di là dei confini della propria professione. Finche il mondo degli affari resterà ossessionato dai bilanci si dimenticherà che la ricchezza senza saggezza è come il pane senza l’acqua e la sete uccide più in fretta della fame. Poiché al successo finanziario non si accompagna l’autorità morale il mondo degli affari ha fondato il suo prestigio su ideologie prese in prestito, come quando “conquista” i mercati secondo la tradizione militare, o codifica le sue pratiche nel linguaggio delle scienze sociali, o reinterpreta gli insegnamenti delle religioni come gli fa più comodo. Continua a subire le imboscate degli atteggiamenti contraddittori verso il lavoro, incerto se il tempo libero sia il massimo obiettivo o se alcuni tipi di lavoro siano più nobili di altri, oppure se la realizzazione si trovi nel padroneggiare una singola abilità. Il mondo degli affari, dunque, è ancora adolescente, pieno di giovanile spavalderia, con ogni generazione che cerca di superare quella che l’ha preceduta, e la piena maturità potrà essere raggiunta solo quando rifletterà compiutamente sulla sua componente ansiosa, sui motivi per essere così occupati e su cosa farne del tempo.
(Ventotto domande per affrontare il futuro – Theodore Zeldin)

Risposte a questo tipo di domande hanno implicazioni profonde per chi deve guidare le organizzazioni e per chi vi lavora, definiscono obiettivi, valori, processi organizzativi, criteri di merito e così via.

Qualcuno potrebbe obiettare che sono riflessioni troppo “cerebrali”. In realtà imprenditori o manager hanno delle assunzioni implicite da cui partono per determinare scelte e decisioni, ne siano consapevoli o meno.

Definire il tipo di organizzazione, i sistemi d’incentivazione, il ruolo del merito, le opportunità di crescita offerte ai dipendenti e così via, dipendono tutti da una serie di premesse che molte volte sono date per scontate e non sempre vengono analizzate.
In alcuni casi, queste premesse sono anacronistiche o del tutto errate e disastrose negli effetti pratici che determinano, altre volte ottengono invece l’effetto contrario progettando organizzazioni innovative e che vedono le persone protagoniste del successo.

Molte aziende impiegano ancora l’antico sistema del “bastone e della carota” agendo con militaresca precisione e progettando sistemi di comando e controllo da esercito prussiano, ignorando che anche i militari hanno capito, che nel mondo di oggi, quei sistemi non funzionano più.

Educare alla responsabilità, addestrare al problem solving e alla creatività, coinvolgimento e iniziativa nelle attività, condivisione di valori e obiettivi, sono percorsi decisamente più funzionali e condivisibili, anche se certamente più impegnativi.

Assisteremo, nel tempo a venire, a una maggior presa di consapevolezza da parte delle organizzazioni che è necessario far leva sulla loro principale risorsa, le persone e su nuovi e più moderni sistemi di gestione.

Assisteremo a una maggior importanza riconosciuta all’etica, identificando oltre ai parametri economici come fattore importante per orientare le scelte, anche una dimensione umana ed etica, e cioè che esistono scelte giuste e scelte sbagliate e che il criterio non può essere solo il profitto o la quota di mercato, o favorire un vantaggio sul breve termine rispetto a quello sul medio-lungo.
Tendenza che appare chiara nell’orientamento alla responsabilità sociale d’impresa, che a parte essere la tendenza “cool” del momento, riflette anche l’osservazione che certe decisioni hanno un costo sociale, ambientale e umano non trascurabile, come dimostra l’impoverimento generale della società: polarizzazione del gap tra parte ricca e parte povera, al di sotto dei livelli minimi di sostentamento; la dimensione ecologica; la deindustrializzazione come rischio da evitare; il continuo calo della professionalità e delle competenze; l’evidente problema di motivazione di una forza lavoro sempre più precaria e lontana da un impegno che in altri tempi era segno di un’immedesimazione e orgoglio nell’azienda e più in generale di una grave crisi di leadership a tutti i livelli.
Insomma sfide che richiederanno di ripensare dal profondo tutta una serie di assunti e premesse che portano in direzioni che sarebbe auspicabile evitare.

(…) Essere spinti di continuo a lavorare di più e così potersi permettere un flusso senza fine di cose desiderabili è un genere di libertà molto deprimente. Le grandi corporazioni non hanno ancora inventato un modo per rinnovarsi in modo tale da diventare una fonte di liberazione personale e creatività individuale per tante persone che ora sono costrette a cercarle fuori dal proprio lavoro.

(…) Forsea gli uomini d’affari di successo che ottengono onori e comodità può anche importare di aver mancato qualche conquista intellettuale, artistica, spirituale o morale, ma quando vedono i propri figli che sono determinati a non seguire le loro orme e si affannano senza sapere cosa fare si rendono conto che il sistema che li sostiene per molti esponenti della prossima generazione è ormai insignificante.

(…) Quando nei secoli passati i giovani non riuscivano a trovare lavoro emigravano verso altri continenti. Oggi, nella stessa situazione, il lavoro devono inventarselo lì dove sono. Sempre più spesso pensano di non voler fare come i loro vecchi perché i posti di lavoro disponibili non soddisfano il loro temperamento, non consentono al loro talento di esprimersi e non ci sono mai abbastanza lavori davvero decenti. Quando gli dicono che non servono a nessuno perché non hanno esperienza o non hanno le qualifiche giuste, l’unica strada che hanno a disposizione è usare l’immaginazione per creare nuovi modi di vivere.

(…) Il mondo degli affari inoltre potrà crescere fino a dimenticare gli ideali militari che ancora coltiva, e misurare i propri risultati non in termini di territori conquistati, concorrenti sconfitti e bottino portato a casa. Non deve più avere rapporti così ambigui con la vita privata. Potrebbe preferire le analogie con la gastronomia, che riguarda la comprensione di cosa vale e cosa non vale la pena desiderare, il gusto per i sapori sconosciuti e la rinuncia ai pregiudizi ereditari.
(Ventotto domande per affrontare il futuro – Theodore Zeldin)

Reinventare, ritrovare un nuovo significato per il lavoro sarà la grande avventura del nostro tempo, per costruire un mondo migliore dotato di scopo.

Design a better world …

Buona settimana
Massimo

 

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