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Lean + “something” …

By 6 Marzo 2016 Marzo 27th, 2020 5 Comments

Lean + “something” …Lean six sigma, lean sales, lean leadership, lean start-up, lean management, lean production, lean manufacturing, lean innovation, lean manager, lean style, lean academy, lean enterprise, lean+agile, lean people, lean relationships, lean thinking, lean design, lean evolution, lean products, lean maintenance, lean coffee, lean helthcare, lean factory, lean IT, lean green, lean black belt, lean poker, lean solution, lean UX, lean learning, lean enterpreneur, lean office, lean brand, lean accounting, lean change…

Uff … Mi fermo qui!
Da Google digitando la parola “lean”, escono ben 224.000.000 di risultati e non mi sembra il caso di citarli tutti.

La formula è davvero semplice.

Alla parola “lean” (aggettivo) aggiungere (plus, +) un nome per ottenere così: lean car, lean bus, lean ticket, lean tax (quanto ce ne sarebbe bisogno proprio qui in Italia), lean home, lean road, lean shirt, lean neck, lean garden.
Possiamo immaginarne alcune più “business sensitive”: lean business, lean marketing, lean customer service, lean human resource, lean people, lean boss, lean strategy, lean excellence, lean canvas, lean talent, lean development, lean R&D, ecc., ecc.
In italiano potremmo inserire il nome (il “something”) seguito dalla parola “lean: previdenza lean, commercialisti lean, elettricisti lean, benzinai lean, burocrazia lean (un bel ossimoro), ecc.,ecc.
Oppure di simpatici: lean cartoon, lean creative ideas, lean lab, lean writing, lean bar, lean sushi bar, lean shoes, lean umbrella, lean beach (molto musicale), lean climbing, lean tennis, lean football, lean athlete, lean singer, lean music, lean theater.
Le combinazioni sono davvero infinite.

Da cosa nasce la moda del “lean+something”?
A mio avviso ci sono fondamentalmente due ragioni.

La prima è semplicemente una ragione commerciale: la parola “lean” è di moda.
Le aziende, da qualche anno ormai, sono molto sensibili a tutto quello che è connotato con “lean”, per cui se si vuol fare business, utilizzare la magica parolina apre tutta una serie di opportunità rispetto ad aziende e organizzazioni che vogliono, appunto, “fare la lean”.
Ho scritto qualche post sul tema. E, se avete voglia e pazienza di leggerli, ne suggerisco tre:
Tempietti e vecchi merletti: dalla tranquilla sicurezza dei “pillar” alla difficile semplicita’ dei cerchi, ovvero e’ meglio essere creativi o praticare l’archeologia?
(12 aprile 2015)
Ricette per catastrofi. GCM – Galaxy Class Manufacturing! (29 marzo 2015)
Lean, Toyota e la ricerca del Sacro Graal … (7 luglio 2014)

La seconda è più sottile.
Il significato implicito della parola è che “lean” significhi aver ridotto gli sprechi, per cui qualunque cosa preceduta dall’aggettivo lean diventa, per magia, “efficiente”, con un livello molto basso di sprechi. Se l’azienda attua i principi del “lean+something”, come per magia attingerà ai magici segreti sviluppati dai guru della lean e trasformerà le sue attività da inefficienti a efficienti e diventerà come Toyota.
Lean, “snello”, fare di più con meno, è un concetto attraente per chiunque sia alla ricerca della ricetta per trasformare la sua organizzazione: strumenti validi, semplici, efficaci e riproducibili; tempietti con un numero variabile di colonne (ho scoperto che nell’ambito della Word Class Manufacturing si possono comprare anche i pilastri uno alla volta, sig!); ricette sicure e facili da implementare. Perché no?
Cosa avrebbero detto Sakichi Toyoda, Kiichiro Toyoda, Taiichi Ohno, Edwards Deming di tutto questo incredibile proliferare di “lean+something”?
Beh, tanto per cominciare, “lean+something” non è lean …
Quel “+ something” è uno spreco, o per dirla alla giapponese, un MUDA (non crea valore). Alla radice originale di tutto, applicata più che codificata in tempietti dai grandi pensatori che hanno applicato l’idea all’azienda (S.Toyoda, K.Toyoda, T.Ohno, E.Deming) c’è l’idea che ogni attività possa essere migliorata, continuamente e incessantemente e non solo nelle “settimane kaizen”, ma in ogni luogo, in ogni area (tutta l’azienda) e che tutti devono partecipare a migliorare ogni giorno. Quindi guardando dietro, in profondità, oltre all’americanizzazione del concetto – la parola lean – troviamo kaizen= cambiare per migliorare (la parola giapponese nella sua essenza traccia un percorso verso la perfezione e non vorrei, visto le mode, che anche questa si trasformasse in “kaizen + something).
E cambiare per migliorare si applica a tutto: a tutta l’azienda, a qualunque altra attività che non sia produttiva, alle attività sportive, a livello personale.
E a proposito di sport (so che già qualcuno sta pensando a lean sport…) cito dal libro di Giuseppe Vercelli, Vincere con la mente editore Ponte alle Grazie, il seguente brano:
Questa filosofia (kaizen) considera il passato fondamentale per la costruzione del futuro, in un processo in cui si potenziano le aree di miglioramento precedentemente individuate. Inoltre, si basa sulla convinzione che ogni sforzo dell’essere umano, per quanto fallimentare, gli consenta una crescita o un cambiamento di strategia.
(…) Applicare la filosofia kaizen significa cambiare spesso la propria strategia o il proprio modo di pensare, per migliorarsi incessantemente. Kaizen, nella visione orientale, interpreta in modo ecologico la ricerca dei limiti che ciascun atleta sperimenta nella pratica sportiva. Possiamo dire che tutti noi, anche se non siamo atleti, siamo curiosi di conoscere fino a dove possiamo spingerci rispetto a una certa azione o rispetto a un obiettivo personale o professionale. Cercare di superare i propri limiti e migliorarsi continuamente è una normale e fisiologica esigenza dell’essere umano.

Recentemente ho visto comparire in internet un tempietto con un numero incredibile di mattoncini, ognuno dei quali rappresentava una tecnica o uno strumento. E cerco di immaginarmi cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno fosse andato da Taiichi Ohno con uno schema così impostato…
E cosa dire, di chi, prima che fosse di moda, parecchi anni fa, aveva cominciato ad applicare i principi del miglioramento nelle attività senza avere tutti gli strumenti così belli codificati e ben rappresentati?
Trovo questi schemi devastanti, svianti e pericolosi.
Abbiamo perso completamente lo spirito dell’imparare facendo e del fatto che la ricerca del miglioramento è prima di tutto personale, poi collettiva (team) e che infine ha bisogno di un sensei (先生, lett. “persona nata prima di un’altra”, è un termine giapponese che ha spesso l’accezione di “maestro” o “insegnante”. Oltre a indicare i docenti scolastici, viene adoperato anche all’interno delle scuole buddhiste, delle arti e tecniche tradizionali, dove il “maestro” non viene visto come semplice insegnante di nozioni, ma anche come un individuo dotato di autorità ed esperienza, ovvero un “maestro di vita”. Wikipedia).
Il rapporto maestro-discepolo, così comune nelle arti giapponesi e nelle arti marziali, diventa il percorso di crescita personale del discepolo guidato alla scoperta – in questo caso – del miglioramento e dei processi necessari per realizzarlo.
In alcune aziende, quelle che fanno miglioramento con convinzione e serietà, la persona assegnata alle attività “kaizen” è solitamente una persona con molti anni di esperienza e con il carisma e l’autorevolezza, derivante sia dall’esperienza, dalla conoscenza del lavoro e dalla capacità di far crescere altri dimostrata in tanti anni di lavoro, per poter essere un vero “sensei”.
Al contrario in molte altre aziende si assiste all’inserimento di neo-laureati (hanno il pregio di costare poco), preferibilmente ingegneri, mandati allo sbaraglio di fronte a colleghi che hanno anni di esperienza con, magari, malumori e frustrazioni accumulati nel tempo, condannandoli così al fallimento o all’esecuzione rituale dell’aggiornamento formale dei soliti schemini. Questi giovani, ne ho incontrati parecchi, sono delle persone eccezionali, dotate di volontà e capacità, ma non conoscono né in modo approfondito il lavoro né hanno l’esperienza per rapportarsi con colleghi più “scafati” e soccombono così, tra disperazione e senso di impotenza, alle leggi non scritte dell’azienda, non supportati e nel vuoto di una leadership inesistente o lontana dalle attività operativa o distratta da altre cose.
La responsabilità del fallimento, ovviamente, non è loro, ma di chi dovrebbe avere una visione diversa e più matura, e invece, o segue in modo becero le “guideline” aziendali definite da qualcuno in qualche parte del mondo, oppure decide su cose di cui non sa nulla.
Dimostrazione di come la “lean” così intesa sia quella che Bob Emiliani chiama “Fake Lean” (Lean Falsa): applicazione degli strumenti e nessuna attenzione alle persone.

Egli (Anders Ericsson – psicologo di origine svedese) ha fornito un supporto scientifico al fatto che, nella nostra specie, i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate.
(…) Il frutto del lavoro di ricerca di Ander Ericsson è oggi noto con il nome di “teoria delle diecimila ore”.
(…) Tuttavia, secondo Ericsson, chi ha raggiunto la mastery, cioè chi ha raggiunto un alto livello di padronanza, tende a ritardare il momento dell’automatizzazione inserendo degli esercizi obiettivi sempre più sfidanti, che richiedono consapevolezza. Ciò permette di fornire al sistema nervoso più stimoli e più tempo per crescere in complessità. Alla fine l’esecuzione viene automatizzata, ma la padronanza del gesto risulterà di qualità incomparabilmente superiore. L’esercizio intenzionale di solito richiede un maestro, cioè una persona che sia già esperta del processo e che possa fornire obiettivi e feedback adeguati.
(Pietro Trabucchi – Tecniche di resistenza interiore)

L’utilizzo di addetti junior nelle attività di miglioramento è un’ennesima dimostrazione del modo di pensare di certe aziende che operano con logiche (il contenimento “apparente” dei costi) contrarie al buon senso e anche alle evidenze fornite dalla scienza.
Del resto chi andrebbe a lezione di nuoto da una persona che sta a malapena a galla o da un maestro di golf con tre mesi di esperienza?
Inoltre, immaginiamo che un’azienda abbia un progetto strategico da sviluppare, sarebbe più corretto assegnare le migliori risorse, le più esperte e le più capaci, oppure le più inesperte, appena entrate in azienda?
Con la scelta di utilizzare risorse “economiche” al progetto, di fatto si definisce già in partenza l’importanza molto bassa (in contrasto con i proclami roboanti) che il management attribuisce al miglioramento continuo. Così il fallimento è già deciso prima ancora di iniziare.

Se proprio mi devo adeguare ai “jingle” di moda, preferisco “REAL LEAN” (Lean Vera) utilizzata da Bob Emiliani (con il quale vi è profonda intesa su diversi temi), come sintesi di due sfere che devono convergere per rendere etico e sostenibile il miglioramento: miglioramento continuo e rispetto per le persone.

La tendenza ad attribuire etichette e identificare in categorie è tipica dell’essere umano ma noi non amiamo e non vogliamo essere classificati come lean, ci appare riduttivo, fuorviante e non rappresentativo delle nostre attività e da ultimo, francamente anche datato, vecchio.
Non ci riconosciamo nella “lean+something” avendone visti i disastri e i fallimenti oltre che l’obsolescenza.

Mi piace, citare una frase di Emily Pilloton (fondatrice e direttore esecutivo di Project H Design un’organizzazione non profit di design industriale):
Credo che il design sia soluzione di problemi con grazia e lungimiranza.
Credo che ci sia sempre un modo migliore.
Credo che il design sia un istinto umano, che le persone sono intrinsecamente ottimiste, che ogni uomo è un designer, e che ogni problema può sia essere definito o come un problema di design o risolto con una soluzione di design.
“Lean + something” con il suo uso sintetico, commerciale, pubblicitario, la lasciamo ad altri.
A noi piace l’etichetta di designer, cioè chi aiuta altri (aziende e persone) e opera per costruire un futuro migliore.
Ci sentiamo dei designer.
Less is more!

Buona settimana
Massimo

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