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Smaterializzare il lavoro.

By 28 Aprile 2020 No Comments

La maggior parte della aziende ha scelto macchine intelligenti anziché persone intelligenti, producendo uno schema ben noto che preferisce impiegare macchine con i loro algoritmi anziché esseri umani in una vasta gamma di lavori, compresi molti ben lontani dalla catena di montaggio. Gli economisti chiamano “polarizzazione del lavoro” il risultato di queste scelte, connotato da lavori ad alta competenza e lavori a bassa competenza, con le macchine che si occupano di gran parte dei lavori un tempo “nel mezzo”.
Shoshana Zuboff

Un riflessione sullo ‘smart working’.
E’ un dibattito sul quale leggiamo quotidianamente sui ‘social’ e di cui sentiamo parlare continuamente, soprattutto di questi tempi, in televisione.
Herbert Simon, economista e psicologo scrisse:
Nelle scienze, si dà per scontato che uno studioso debba scoprire nuove verità. Il verdetto che, pronunciato a proposito di un contributo scientifico, maggiormente può stroncarlo è quell’ormai mitico giudizio, annotato in calce: “Ciò che vi è di nuovo, purtroppo non è vero e ciò che vi è di vero, purtroppo non è nuovo”.
Considerazione che si applica alla discussione attuale sullo ’smart working’ e per quanto mi riguarda, non so se scriverò cose nuove ma, almeno per me, vere anche se non nuove.

Iniziamo con una definizione autorevole per chiarire i termini del problema:
Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.
dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

Per chiarezza e senso di responsabilità, devo riconoscere che l’emergenza coronavirus ha certamente obbligato tutte le aziende o almeno molte, a riconsiderare il lavoro remoto finalizzato a dare continuità all’attività aziendale. Non vi è dubbio che ridurre la presenza negli uffici, il distanziamento sociale e le misure intraprese, siano state il miglior contributo concreto di contrasto al diffondersi del virus. Il punto però è un altro: saranno misure sostenibili? Sarà quello il futuro del lavoro? Lavoreremo in remoto?

Consapevole del pericolo di arrischiarsi a formulare previsioni del tutto infondate, sport che di questi tempi è diventato molto popolare, cerco di stare ancorato ai fatti (almeno dal mio punto di osservazione). 
Il lavoro da remoto non è nuovo: alla fine degli anni ’90, ero ancora in azienda all’epoca (una società multinazionale con diverse sedi all’estero), si investì in sistemi di videoconferenza che avrebbero dovuto ridurre viaggi e spostamenti, consentendo (era il mantra di allora) una ‘significativa riduzione’ dei costi in viaggi e trasferte, il tutto durò qualche mese, poi come molto spesso (quasi sempre) succede con le mode aziendali, divenne – il sistema di videoconferenza – una specie di soprammobile che decorava il tavolo della sala riunione. 
In seguito arrivò Skype (2003) e se ne fece un uso sporadico, invece della telefonata era più comodo poter visualizzare il volto dell’interlocutore, la conversazione era più coinvolgente. L’ho utilizzato diverse volte e per diversi incontri. Oggi oltre all’ancora presente Skype sono disponibili tutta una serie di nuovi tool che consentono ‘call’ con più persone. Credo tutti abbiamo realizzato quanto siano faticose e come il loro utilizzo non può che essere temporalmente limitato, non essendo nella nostra natura parlare attraverso uno schermo dove manca un’interattività certamente fondamentale.
Quindi da questo punto di vista non c’è nulla di nuovo, sono sistemi conosciuti da almeno vent’anni. Strumenti che possono essere utili e se disponibili perchè non usarli? 

Ci sono lavori, compiti, che possono svolgersi tranquillamente in remoto.
Personalmente, quando devo progettare un training o fare ricerche lavoro da casa e lo faccio da anni oramai; conosco molte persone che, con frequenze differenti e in funzione dell’attività da svolgere, lavorano da remoto. Certe attività di progettazione, di supporto clienti, amministrative, ecc, possono essere svolte piuttosto agevolmente ‘online’.
E’ anche ragionevole pensare che tutta una serie di attività dove l’intervento umano è ridotto a un data entry o a raccolta di dati, soprattutto nei servizi pubblici, potranno essere eliminate ‘digitalizzandone’ l’esecuzione come stiamo finalmente scoprendo, consentendo un miglioramento del servizio e spero una riduzione di una burocrazia diventata asfissiante.

Tuttavia l’Italia, fortunatamente, è ancora un paese dove il tessuto economico è fatto da molte aziende che producono, che fabbricano cose e la fabbrica, ancora per molti anni, rimarrà una realtà non trasferibile in remoto (vedi i tanti decantati successi di Industry 4.0, sig!). Se questa crisi una cosa dovrebbe averci insegnato è che la delocalizzazione ha dei costi e dei rischi non più sopportabili. Dovremmo, auspicabilmente, ripensare e ricostruire supply chain distrutte nella logica del taglio dei costi a… tutti i costi, salvo poi scoprire che abbiamo creato un sistema strutturalmente debole e soggetto a ‘rompersi’ non appena certi anelli della catena si rompono.
Deindustrializzare il paese non può essere una strada percorribile e auspico invece un ritorno al ruolo e all’importanza della fabbrica come istituzione che produce valore per la società, dove l’intelligenza delle persone si può manifestare nella costruzione di oggetti e dove la creatività possa svilupparsi. Abbiamo bisogno di ripensare, cosa che sostengo da anni, alcune modalità di gestione obsolete e questa potrebbe essere l’occasione per farlo. 
La repulsione al lavoro in fabbrica che molti giovani manifestano è causata da molti fattori,  ma deriva anche dalla progressiva svalutazione e impoverimento dell’idea di lavoro manuale, dall’associazione della lavoro in fabbrica come luogo dove si fatica e l’intelligenza si spegne, dove molte volte imperversa l’arbitrio o teorie di management del secolo scorso, tutti elementi che appartengono a una cultura vecchia. 
Come non ricordare le parole di Adriano Olivetti che disse in un famoso discorso:
La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non vi sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta. 
La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate  tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.
(Adriano Olivetti – Ai lavoratori di Pozzuoli – 23 aprile 1955)
Non saprei, né potrei dirlo meglio… la fabbrica come luogo di ‘elevazione materiale, culturale, sociale’, ‘storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta’. La fabbrica è appunto un credere nell’uomo e nella sua capacità di ideare, costruire, credere nel ‘fare’. 
Già perché la ricchezza qualcuno la deve pur produrre, no?

Infine, ci sono dei lavori che non si possono fare da remoto e penso a tutto il mondo dei servizi, del turismo, della sanità, della cura alla persona, ai teatri, al mondo del cinema, ai musei, all’arte alla musica. 
Quindi quando parliamo di ‘smart working’ di cosa stiamo parlando? Di quante persone, di quali settori e quali lavori?
Ecco perché la discussione sullo ‘smart working’ non mi interessa più di tanto, è marginale e vista nel complesso probabilmente neppure significativa. 
Se potete lavorare in remoto fatelo. 
Se potete digitalizzare attività inutili fatelo e fatelo subito. 
Non sarà lì il futuro e da lì non si risolleverà il paese.
Va bene ‘smaterializzare’ quello che ha senso rendere digitale e il trend va in quella direzione, ma non possiamo smaterializzare il lavoro né tantomeno l’intelligenza.

Design a better world
Buona settimana
Massimo

Foto Crediti
Fonte Wikipedia. 
English: Luc-Henri Fage, 1999, issue from my book “Borneo, Memory of the Caves”,

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